Finanziamento pubblico ai partiti: un falso problema
Quando si tocca il tema del finanziamento pubblico ai partiti, i politici, di qualsiasi schieramento, si dileguano. Le stanze si svuotano, le luci si spengono. Quasi fosse un argomento tabù, la discussione sul finanziamento pubblico sembra essere sparita dai circoli locali, evitata sui palcoscenici nazionali.
Anzi, se c’è una cosa su cui tutti i nostri rappresentanti concordano, da nord a sud e da sinistra a destra, è che il Finanziamento pubblico ai partiti è il male assoluto.
È stato sorprendente, dunque, rileggere vecchie interviste rilasciate nel 1974 ad Oriana Fallaci da Giulio Andreotti e dal Segretario del PCI, Amendola: entrambi, sebbene non ancora totalmente persuasi, cominciavano a comprendere che il finanziamento pubblico poteva rappresentare l’unica soluzione al finanziamento illecito dei partiti.
Eravamo negli anni ‘70 e due grandi scandali avevano scosso la prima Repubblica: il caso Trabucchi, Ministro delle Finanze accusato di aver intascato tangenti in cambio di piaceri nei confronti di due grandi compagnie del tabacco, e il caso “dei petroli”, che vedeva i politici di tutti gli schieramenti indagati per aver favorito, in cambio di ingenti quantità di denaro, la società petrolifera Enel, a discapito dell’ innovativo (all’epoca) sviluppo del nucleare.
Il risultato fu la Legge Piccoli (l. n. 195/1974) che, per la prima volta, introduceva il finanziamento pubblico ai partiti e incriminava il finanziamento illecito come autonoma fattispecie di reato. Così facendo, si sperava che i politici non sarebbero più ricorsi a “scorciatoie” per finanziare la propria attività politica.
Negli anni ’80 giunsero le prime modifiche alla legge, tra cui il raddoppio dei finanziamenti e l’obbligo di rendicontazione per i partiti come requisito per accedere ai finanziamenti. La normativa, tuttavia, non prevedeva alcun controllo efficace.
Purtroppo, la riforma non diede i risultati sperati. Ciò che accadde è storia: il nostro paese continuò a essere colpito da scandali. Come dimenticare Mani pulite, tra gli anni ‘80 e ‘90, che colpisce al seno proprio quei partiti che tanto sembravano impegnati nella lotta alla corruzione?
Nel 1993, come a qualcuno piace ricordare, il primo referendum abrogativo: il popolo scelse di abrogare la legge sul finanziamento pubblico ai partiti.
Da allora un susseguirsi di leggi, mal coordinate, sui rimborsi elettorali, che alzavano o abbassavano ad occorrenza il quorum necessario per accedere ai fondi. Il massimo venne raggiunto nel 2002 quando, con il Governo Berlusconi, i finanziamenti furono raddoppiati, ma i controlli sui rendiconti dei partiti giunsero al minimo storico.
Forse, se nella storia è possibile scovare dei “punti di rottura”, quel momento fu uno di questi: l’insofferenza, la rabbia per lo sperpero di danaro crearono un’ondata di insofferenza che è giunta fino ai giorni nostri.
La questione sembrava essere definitivamente archiviata dal 2014, quando il Governo Letta abolì il finanziamento pubblico, sostituendolo con un sistema di ritenute sui conferimenti dei privati e stabilendo la possibilità di donare il 2x1000 a un partito politico. Da allora, anche i conferimenti privati sono rigidamente controllati.
Il dibattito, tuttavia, è stato riaperto proprio qualche mese fa con l’approvazione della Legge Boccadutri, che ha fatto “infuriare” l’opinione pubblica perché “rea”, secondo qualcuno, di aver reintrodotto il Finanziamento pubblico, “regalando” 45 milioni di euro ai partiti politici.
Innanzitutto, facciamo chiarezza: che la Legge Boccadutri abbia reintrodotto il finanziamento pubblico ai partiti è una bugia bella e buona. Semplicemente, la legge mira a regolare il funzionamento della Commissione incaricata del controllo della rendicontazione del partiti politici. Ciò che in effetti è vero, è che questa ha consentito di “sbloccare”, bypassando i controlli, 45 milioni di euro di rimborsi elettorali previsti come ultima tranche di finanziamenti per l’anno 2013-2014 (vale a dire l’ultimo anno di finanziamenti previsti dalla Riforma Letta) e mai erogati, in quanto la Commissione preposta ai controlli si era dichiarata in carenza di personale.
Al netto della questione, tuttavia, pensiamo che questa possa essere l’occasione giusta per avviare una profonda riflessione sul sistema di finanziamento pubblico ai partiti, nell’ambito di un’analisi che sia innanzitutto scevra da pregiudizi, non importa quanto si rischi di apparire vecchi, corrotti, noiosi.
Ripercorrendo la storia, da Mani Pulite, fino ai recentissimi scandali sui rimborsi per la regione Lazio e la regione Campania, infatti, è evidente che ci siamo persi qualcosa.
Il finanziamento pubblico ai partiti, in sé considerato, non è dannoso. Anzi, è persino uno strumento vantaggioso per l’anticorruzione. Basti pensare che il paese meno corrotto d’Europa è il paese che ha addirittura costituzionalizzato il finanziamento pubblico: l’avanzatissima Germania.
Non solo, ma il finanziamento pubblico presenta l’indiscutibile vantaggio far giocare tutti ad armi pari, garantendo al contempo una selezione tra le proposte migliori. Non importa se sei povero o ricco: se le tue idee sono valide, e lo dimostri raggruppando consensi, il finanziamento pubblico ti consente di sostenere una campagna elettorale. In un mondo come il nostro, dove le campagne elettorali si vincono (ahi noi) con la pubblicità, il marketing, gli articoli di copisteria, il finanziamento e la sua origine diventano fondamentali. Se vogliamo consentire a tutti gli schieramenti di giocarsela senza dover piaceri a nessuno magnate, bisogna ammettere dunque che il finanziamento pubblico è l’unica soluzione accettabile.
Certo, gli apporti dovrebbero essere ridotti: il rimborso dovrebbe essere quello minimo per gli articoli di copisteria, per le sole spese elettorali, tutte rigidamente documentate.
“Il popolo si è espresso – direbbe qualcuno – nel 1993 il referendum lo ha già abrogato”. Nessuno parla però di un altro referendum abrogativo della legge sui rimborsi elettorali, proposto dai Radicali nel 2000, che addirittura non raggiunse il Quorum. Quasi a dimostrazione del fatto che, in fondo, al popolo non interessa come investire 40 o 50 milioni di euro di spesa (a fronte di una spesa pubblica di circa 180 miliardi di euro): al popolo interessa essere governato bene. La verità è che, oggi, lo strumento del finanziamento è stato eliminato, ma chi per anni lo ha stravolto per i propri scopi, è ancora al suo posto.
Se c’è una cosa che la storia insegna, allora, è che se la corruzione investe tutti i livelli della società, non esistono leggi che tengano: l’Italia ha, ancora, un problema di classe dirigente.
In un momento storico di crisi politica e di sfiducia nei confronti dei partiti, quindi, la sfida è di coloro che, in quei partiti, hanno deciso di restare e militare. L’unico vero rimedio alla corruzione, infatti, sarà solo e sempre formarsi, lavorare giorno per giorno per divenire persone oneste, ma soprattutto attente, capaci. Capaci di immaginare un mondo diverso, e di far sì che la realtà sia improntata alla propria visione.
Possiamo ancora farlo, possiamo ancora cambiare. Questa volta la scelta tocca a noi.